venerdì 25 novembre 2011

Medicina: la “fluorosi scheletrica” esisteva ad Ercolano già 2000 anni fa, lo rileva uno studio del Cnr di Portici e dell’Università Federico II

di Marina Ranucci
Gli abitanti di Ercolano del 79 d.C. soffrivano già di “fluorosi scheletrica”. È quanto emerge da uno studio multidisciplinare dell’Istituto per i Materiali Compositi e Biomedici del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Portici (Imbc-Cnr) in collaborazione con l’Università Federico II di Napoli, pubblicato sulla rivista scientifica “Public Library of Science One” (PLoS One). Le origini della particolare patologia sarebbero state individuate nella forte concentrazione di fluoro nelle acque, tipica dei territori vulcanici. Ed oggi come 2000 anni fa, la situazione risulta essere la stessa. Gli abitanti delle aree vulcaniche sono soggetti a rischio “fluorosi scheletrica”.
La patologia, che può arrivare ad essere invalidante anche perché non facilmente diagnosticabile, è causata da una eccessiva assunzione di fluoro. Questa può causare fragilità ossea, alterazioni patologiche del tessuto osseo come l’osteosclerosi con riduzione degli spazi midollari, osteoporosi e frequenti fratture, osteomalacia con insufficiente mineralizzazione dell’osso e, nei casi più gravi, rachitismo per i bambini. Inoltre, soprattutto nei bambini, la fluorosi dentaria aumenta l’insorgenza della carie. La ricerca è stata effettuata sui resti ossei di 76 scheletri ritrovati sull’antica spiaggia di Ercolano, appartenuti a membri della popolazione del 79 d.C., di età compresa da 0 a 52 anni, vittime dell’epocale eruzione. «Dall’esame delle peculiarità morfologiche, radiologiche, istologiche, chimiche, scheletriche e dentarie – spiega Michele Giordano dell’Istituto di Portici -  si è constatato un aumento significativo della concentrazione di fluoro con l’età e un correlato grado di lesione della colonna vertebrale e di altri distretti articolari – continua - per la determinazione del fluoro negli scheletri è stata adottata “l’analisi di attivazione neutronica strumentale”, una tecnica complessa, utilizzata presso l’University of Missouri Research Reactor, che ha rivelato livelli di fluoro da 2.000 a 11.300 ppm (parti per milione), indicativi dell’avvelenamento da fluoro. I valori di fluoro più alti, maggiori di 9.000 ppm, si osservano negli adulti sopra i 40 anni, che dimostrano una fase patologica molto grave, paralizzante, come quella osservata tuttora nelle regioni endemiche». Pierpaolo Petrone, del Museo di antropologia della Federico II illustra: «nell’area vesuviana già in epoca romana la fluorosi era endemica fra i massimi studiosi della zona dal punto di vista archeologico, paleobiologico e tafonomico – incalza Petrone - e ciò è dimostrato da una lunga serie di evidenze e dati epidemiologici ora resi disponibili; pertanto le popolazioni vesuviane corrono un rischio permanente a causa del fluoro, e le attuali linee guida per la fluorizzazione dell’acqua potabile andrebbero riconsiderate». L’acqua potabile che arriva ai rubinetti delle case vesuviane, infatti, viene arricchita di fluoro, come del resto accade in ogni altro territorio. Fluoro che, in basse concentrazioni, previene la carie dentale e rafforza le ossa, ma aggiunto nelle acque delle zone vesuviane, insieme al fluoro naturalmente depositato nelle ceneri vulcaniche e dunque nelle falde acquifere, supera abbondantemente i parametri di sicurezza previsti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) e dalle normative nazionali, mettendo quindi a rischio la salute della popolazione. «Da test svolti ultimamente su un campione di bambini in età scolare dei comuni vesuviani – rileva Pier Paolo Petrone della Federico II -  questi livelli elevati sono a tutt’oggi presenti ed attivi. I risultati hanno rilevato l’80% di fluorosi dentaria e caratteristiche cliniche di portata epidemica, quali dolori articolari, dermopatie, ipertiroidismo e contenuto di fluoro nel sangue superiore ai valori massimi raccomandati dall’Oms – conclude Petrone - la comparazione dunque mostra per le popolazioni vesuviane un rischio permanente, non sempre valutato, anche perché le fasi iniziali della malattia sono mal diagnosticate». (Dati rilevati: Adnkronos)

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